Vivere per la realizzazione di un progetto personale che includa l’altro piuttosto che avere come progetto automatico che l’altro ci voglia bene e non si arrabbi con noi’
‘Essere definiti dall’altro in ciò che siamo versus sentire la legittimità della nostra soggettività, dei nostri desideri e scelte in quanto differenti dalla soggettività, desideri, scelte di qualsiasi altra persona, senza con ciò fabbricare una moralità modellata sulla misura delle proprie convenienze.’
(Hugo Bleichmar)
La dipendenza affettiva, intesa come forma di disagio psicologico, indica la necessità di accettare le richieste e di compiacere l’altro allo scopo di tenerlo vicino, di far si che non prenda le distanze da noi, trasformando questa necessità in sottomissione, cioè rinuncia a sé e ai propri progetti. Quando ciò avviene è per la sensazione profonda di non poter far a meno dell’altro, cosicché le sue risposte emotive diventano importanti al punto di sentire la necessità che sia sempre ben disposto nei nostri confronti. E’ per questo motivo che chi dipende affettivamente monitora strettamente l’oggetto del suo attaccamento, nell’angosciosa attesa di conferme positive o della sua rabbia o delusione.
A questo proposito è utile ricordare che tutti gli esseri umani hanno in comune un passato di dipendenza emotiva, dato che il raggiungimento dell’autonomia nella nostra specie è frutto di un lungo e tortuoso percorso. Il bambino vive una reale dipendenza assoluta nei confronti dei suoi genitori e le loro reazioni emotive producono effetti profondi sul senso di sé: un bambino apprende chi è, di che cosa è capace, come debba sentirsi nei confronti degli altri primariamente attraverso la relazione con i suoi care giver. Non solo, la fondamentale importanza di questi ultimi è così radicale che anche quando lo maltrattano non è possibile per il bambino pensare che siano cattivi, preferisce pensare che ci sia qualcosa di sbagliato in lui. Il bambino quindi vive le reazioni emotive dei suoi genitori come commenti su di sé e non come informazioni su di loro. Nella dipendenza affettiva avviene proprio il radicalizzarsi di questi processi attributivi.
Questo maccanismo di valorizzazione dello sguardo dell’altro su di sé come commento alle nostre qualità è un meccanismo fondamentale e ubiquitario che è necessario modulare nel corso dello sviluppo per non doversi definire (buoni o cattivi) in relazione alle reazioni degli altri ed anzi apprendere che tali reazioni dipendono dalla loro storia e dalla loro personale visione del mondo, e quindi che, in definitiva, parlano di loro e del loro modo di essere.
L’instaurarsi di una dipendenza affettiva necessita di questi processi ma dipende inoltre dal convergere di cause interne ed esterne alla persona dipendente.
Dal punto di vista interno spesso la persona dipendente nutre riguardo a sé certe convinzioni profonde (quali per esempio: ‘se mi ribello si arrabbierà, è capace di qualsiasi cosa’ o ‘sono responsabile della sua sofferenza’, ‘senza il mio partner non so prendere decisioni’ e via discorrendo). Questo sentimento di non poter fare da soli porta con sé elementi che la persona deve imparare a riconoscere in terapia, intendendo con ciò angosce, fantasie, identificazioni e desideri.
Dal punto di vista esterno la persona verso la quale la dipendenza si crea deve avere la caratteristica di non essere interessata ai sentimenti dell’altro o di poter giustificare facilmente la propria condotta secondo l’occasione. In ogni caso questo tipo di persona non è interessata, anzi, osteggia l’autonomia e l’iniziativa dell’altro quando non coincidenti con la propria direzionalità.
L’intervento terapeutico nei casi di dipendenza affettiva richiede numerosi accorgimenti tecnici, tutti in ogni caso organizzati e diretti ad ottenere un risultato fondamentale: smettere di dare troppo valore alla prospettiva dell’altro su di sé per stabilire chi sono, attraverso il cambiamento in tre aree: la rappresentazione di sé, la rappresentazione dell’altro e le fantasie riguardo alle conseguenze del confronto con l’altro.